13 aprile 2023

00:30


Io ho una scatola dei ricordi. 

Lo so, è una cosa adolescenziale, ma ce l’ho fin da adolescente, quindi ha senso. 

Ci sono dentro biglietti di concerti a cui siamo stati, foto di quando ancora si usava la pellicola, lettere scritte e ricevute quando le e-mail erano una cosa per pochi, oggetti apparentemente insignificanti, ma con una storia dietro. 

La porto in giro, da una casa all’altra, da più di 25 anni. 

 Tante delle cose che contiene non sembrano appartenermi, parlano di una persona che non ricordo d’esser stato, altre sembra che siano accadute ieri e mi strappano un sorriso o una lacrima ogni volta che le guardo. 

Nonostante tutte le difficoltà che si incontrano per strada, la maggior parte dei ricordi di quella scatola, mi sbattono in faccia la fortuna che ho avuto fino ad oggi nella mia vita. 

Anche i ricordi dei momenti peggiori, quando mi sentivo schiacciato, parlano delle persone che ho avuto attorno, parlano di amore e di tenerezza che mai ho pensato di meritare, ma che invece non mi è mai mancato. Gli anni passano, i ricordi aumentano e tu non smetti di mancare. Buco.

 

13 aprile 2022

00:00





Quando te ne sei andato, abbiamo accumulato tutte le foto che siamo riusciti a trovare. 

La fotografia digitale ci aveva già regalato centinaia di scatti poco interessanti, con pessime composizioni, ma che sanno catturare la spontaneità e l’ingenuità dei nostri vent’anni.


Scattare una foto è diventato così semplice che quasi annoia e ne stiamo perdendo l’interesse, ma le foto ci permettono di raccontare una storia a chi resta quando noi andiamo via, che parla di noi, dei nostri sogni, dei nostri desideri ma, anche, di niente.

Che belle sono le foto che non dicono niente! Le foto di un paio di scarpe, del cartello stradale di un paese con un nome che sembra stupido, del numero di un parcheggio, di un posacenere pieno di mozziconi…


Alcune delle foto che non parlano di niente, in realtà, parlano di noi e della vita vissuta attorno a quello scatto. 

Le altre, invece, mi raccontano una storia che non so interpretare, di momenti tuoi, delle cose in cui non mi hai coinvolto e di quelle di cui non mi importava.

Sono proprio queste foto che mi piacciono di più perché mi permettono di sognare di te e di chiedermi cosa pensassi in quei momenti a me sconosciuti.


Le foto dei vent’anni, che siano digitali o diapositive, raccontano storie di quando impari a diventare grande e di quello che costruisci lungo la strada, per te e per le persone a cui la strada devi ancora mostrarla.


Tu non sei arrivato fino a qui, ma tutte queste fotografie provano che sei parte della storia di tante persone, di tanti ricordi, avventure e anche di tanti momenti noiosi e banali, condivisi o privati.


Buco

 

13 aprile 2021

01:00


Ogni tanto ti sogno.

Non spesso come vorrei, ma ogni tanto ti sogno.

Sei sempre uguale a come ti ho lasciato: capelli lunghi, pizzetto, la tua posa un po’ dinoccolata. 

Nei miei sogni sei parte di contesti che non hai mai conosciuto, ma non sei mai fuori posto. Sei lì, come se fosse naturale, come se fosse giusto. 

Vederti mi fa sussultare, un misto di spavento ed eccitazione, ma per te tutto è normale e la tua tranquillità mi contagia.

Vorrei parlarti, chiederti, anche solo guardarti, ma è il sogno che guida e io sono solo un passeggero. 

Dopo un istante non ci sei più.

Io mi sveglio con l’amaro in bocca, ma anche il ricordo della sensazione di averti ritrovato che mi accompagna per tutto il giorno.

Mi chiedo se sarà così rivedersi, se sarai lì ad aspettarci come se il tempo non fosse passato, a infonderci tranquillità, a “trasformar l’incubo in sogno”, come cantavano quelli là…

Nell’attesa, mi accontenterò di sognarti quando sono fortunato, e di pensare a te quando tutte le volte che vorrò.

Buco.

 

13 aprile 2020

00:01
Certe cose ti restano in testa e non se ne vanno più.
Sono lì, infilzate in qualunque parte del cervello si occupi dei ricordi, e continuano a saltare fuori, a farsi largo in mezzo a pensieri importanti e rubarne la scena: ogni cosa che vedi, fai, senti, ogni svogliata divagazione che la tua testa si concede mentre guidi in autostrada, in qualche strano modo, arriva a una di queste puntine celebrali.

E non parlo di fatti importanti o particolari unici. No, parlo di cazzate inutili che non hanno alcun valore per la tua vita se non che, in qualche modo, le hai vissute.

Io mi ricordo come ero vestito il 12 aprile 2006. 

Ma non solo, io mi ricordo la sensazione di avere addosso quei vestiti il 12 aprile 2006.

Mi ricordo il polsino del maglioncino H&M bordeaux (Cristiddio!) che mi stringeva più di quanto fosse piacevole, la sensazione di camminare con quei jeans twisted e quanto era morbida la suola di quelle Asics. Mi ricordo il calore del sole che mi trasmettevano alla pelle e mi ricordo di aver avuto freddo, quando il sole non c’era più.

Altri particolari di quel giorno non ci sono più, sono avvolti nella nebbia e non riesco più a ritrovarli. 

Se lo rincontrassi, quello lì col maglioncino bordeaux, credo che per questo mi picchierebbe. 
Ero lì quando giurava e spergiurava che avrebbe sofferto per sempre e che non sarebbe mai andato avanti, ero lì quando diceva che nulla sarebbe mia cambiato e che cercava di congelare ogni dettaglio della sua vita fino al 12 aprile 2006, ero lì quando, spinto avanti dalla vita, si buttava a terra cercando di tornare indietro.
Ed ero lì anche quando si faceva male e quando biasimava chi aveva deciso era tempo di concedersi del bene, o quando si è accorto che non sapeva più come farsi del bene e ha dovuto imparare tutto da capo.
Mi odierebbe, profondamente.

Io no, io a lui voglio bene e, proprio perché ero lì, non proverei neanche a spiegargli come siamo arrivati fino a qui. Gli lascerei sbagliare tutto, ancora e ancora, lo lascerei soffrire e far soffrire perché so che poi arriveremo qui dove le cose hanno un senso e dove, grazie al Signore, non ci sono maglioncini bordeaux.

Buco, cazzo.

 

13 aprile 2019

00:10

L’altro giorno ho parlato di te con qualcuno che non ti ha mai conosciuto.
Anzi no, ho parlato di quello che è successo tredici anni e un giorno fa con qualcuno che non ti ha mai conosciuto.

Era una mattina come tredici anni e un giorno fa e c’era il sole, proprio come tredici anni e un giorno fa. Io facevo, a differenza di tredici anni e un giorno fa, la parte dell’adulto, spiegando a chi faceva la parte del bambino come funzionano le cose che ti fanno stare male e, in particolare, quelle che puoi e che non puoi cambiare.

Quando fai la parte dell’adulto, ci sono cose che non sono facili da spiegare a chi fa la parte del bambino e io ho pensato che fare degli esempi avrebbe aiutato.

Ho iniziato a raccontare la storia di quel mercoledì e, mentre parlavo, mi sono accorto che i ruoli si erano invertiti e, chi faceva la parte del bambino, stava ora facendo la parte dell’adulto ascoltando, in un silenzio composto e profondo, il bambino che si fa piccolo in cerca di protezione mentre racconta un brutto sogno fra le braccia della mamma.

Mi sono sentito bambino tante volte, ma forse mai come l’altro giorno, mi sono sentito protetto, capito, rassicurato e proprio da chi era lì per essere protetto, capito e rassicurato.

Ci portiamo dentro quel giorno di cui, il solo ricordo, ci fa perder ogni parvenza di sicurezza, destabilizzando la vita da grandi che stiamo vivendo, ma intorno a noi, o meglio, insieme a noi, camminano piccole vite che ci guidano, facendosi guidare.

Buco
 

13 aprile 2018

00:01



Assente, ma non esente da un pensiero per le vite appena arrivate e per quelle che se ne sono andate; 
per le vite lontane e quelle vicine; 
per le vite che soffrono e per quelle che torneranno a sorridere; 
per le vite che, per la vita, si uniranno e per quelle che la vita non riesce a separare; 
per le vite che imparano, crescono, costruiscono, ma non dimenticano; 
per le vite che forse torneranno; 
per le vite che vivono il ricordo;
per le vite, le nostre, che il tuo ricordo unisce.
Per te, che anche se non sei più della vita, resterai sempre nostro.
Molto più di un ricordo.
 

13 aprile 2017

00:01
Nove anni fa, avevo voglia di parlare di tutto quello che facevamo insieme.
Ora, ho voglia di parlarti di tutto quello che abbiamo fatto senza di te, da quando abbiamo ricominciato a fare.

Per tanto tempo siamo rimasti fermi ad aspettare di trovare un senso, di trovar la forza di cercare un senso, ma poi tutti, chi prima e chi dopo, abbiamo capito che, certe cose, un senso non ce l’hanno e che ogni mattina devi svegliarti Vivere lo stesso.

Vivere perché c’è qualcuno che ami che dipende da te.
Vivere perché è un tuo dovere nei confronti di chi non può farlo.
Vivere anche se non vuoi vivere.

Quando Vivi vai avanti, a volte in una direzione che ti sembra di star tornando indietro, ma invece vai avanti.

Quando vai avanti, prima o poi, inciampi. Qualcuno a malapena se ne accorge, qualcuno perde un po’ l’equilibrio, qualcuno cade e si fa male, ma tutti riprendiamo ad andare avanti, perché abbiamo imparato a farlo.

Quando impari a non farti fermare da nulla, incontri persone nuove.
A volte non sono così nuove, solo non erano a portata quando tu non eri pronto per loro, altre volte sono così nuove che sanno niente del passato e non gliele frega, perché sono il futuro.

Quando incontri persone nuove è tutto nuovo, anche tu. Hai malinconia, a volte, del vecchio tu, ma non lo rimpiangi perché è dentro di te e ci puoi parlare, ci puoi ridere e scherzare, ci puoi anche litigare, ma quando avrai finito sarai sempre il nuovo tu, che è di più del vecchio tu.

Stiamo Vivendo, Baccuzzo, senza di te, ma stiamo Vivendo. Raccogliamo storie da raccontarti e persone da presentarti al nostro prossimo incontro.

Buco.

 

13 aprile 2016

00:01
In ritardo di dieci anni, come un treno. 

Dieci anni ad aspettare sulla banchina, diligentemente lontano dalla linea gialla, coi miei stracci in una borsa e un gran casino in testa.
Dieci anni a guardare gli altri partire per chissà dove, a camminare avanti e indietro, un po’ impaziente, un po’ annoiato, un po’ sollevato in questo limbo di cemento e binari morti.
Dieci anni passati come dieci giorni.
Dieci anni passati più veloci di dieci ore.

In ritardo come un treno

Dieci anni ad aspettare per capire che non c’è fretta, che i treni non sono in ritardo, che gli orari sono solo numeri, non leggi, e che, se anche fossero leggi, i treni se ne fotterebbero perché sono un po’ anarchici, o forse solo liberi (il che fa ridere per chi può andare solo dove decidono i binari… Ma a loro non ditelo che non se ne sono accorti!).
Dieci anni per capire che partire non vuol dire nulla se non hai deciso dove vuoi andare, che i biglietti di sola andata non esistono e che quelli andata e ritorno non ti riportano mai dove sei partito.

Dieci anni ad aspettare che fosse il treno giusto, nel momento giusto.

Dieci anni, e non ho ancora detto: cazzo!
 

13 aprile 2015

08:24

Ci sono cose che cambiano, cose che restano uguali e cose che, sebbene sembrino cambiate agli occhi dei più, non cambieranno mai.
Buco.
 

13 aprile 2014

02:33

Sette anni insieme. Otto anni separati.
La matematica non mente: siamo più separati che insieme.
Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato, temevo che questo giorno sarebbe arrivato.
E così mi sono preparato: fin dal primo momento ho fatto tesoro di tutto ciò che mi potesse ricordare te, ho accumulato quasi maniacalmente oggetti, scritti, pensieri e ricordi, tutto insieme e tutto pronto per il momento in cui avrei iniziato a dimenticare 
Una sorta di biografia che inizia con la fine e finisce con il nostro primo incontro, io da solo in un posto che non conosco e noi insieme in un posto che conoscevamo fin troppo bene (ci pensi mai a come sarà diventata la nostra scuola?), un’arma carica per affrontare la minaccia più grande che mi sia mai stata rivolta: “Coraggio, passerà”.
Passerà un cazzo.
Noi non la faremo passare.
Quante volte me lo sono ripetuto, quante volte mi sono attaccato al dolore come fosse un salvagente di piombo, quante volte mi sono fatto trascinare fin a quasi toccare il fondo, quante volte…
Ma poi eccoci qua, tutti a galla e con la testa fuori, annaspando di tanto in tanto, ma respirando a pieni polmoni, che alla fine è l’unica cosa che conta se vuoi continuare a vivere, e senza bisogno di feticci o di attingere ricordi dalla cassaforte del passato perché certe cose non si fanno cancellare dal tempo, ma ti rimangono sotto la pelle come un tatuaggio.
Ci ho visto piangere e ci sto vedendo ridere, ognuno a proprio modo, ma non più a denti stretti perché lo esige la forma e la buona educazione, no, ci vedo ridere perché ci sentiamo di farlo, perché abbiamo pianto, tutti insieme, e ci siamo consolati avendo la forza di far nostra tua mancanza sentendoti con noi in ogni momento.

Pensavo ci avessi lasciati soli, ma ora quasi mi sembra che tu sia andato via proprio per non lasciarci mai soli e, nonostante tutto, siamo qui tutti insieme, anche oggi, a dirti che ti vogliamo bene e che ci manchi.
 

13 aprile 2013

00:02

Quante cose ci siamo persi.
Quante cose ci stiamo perdendo.
Quante cose ci perderemo?


 

13 aprile 2012

01:56
Piangerai.
Piangerai e ti sembrerà di non poter smettere.
Non vorrai smettere e più lo farai, più avrai bisogno di farlo.
Ci saranno momenti in cui piangere ti sembrerà l'unica cosa sensata, e le persone intorno a te che non sapranno capire perderanno importanza fino a dissolversi.
Ti dispererai, ti scoraggerai e, un giorno, cadrai.

Cadrai e ti sembrerà di non poterti rialzare.
Non vorrai rialzarti e più starai a terra, più avrai bisogno di restare nella polvere, miserabile.
Ci saranno momenti in cui non saprai neanche immaginare la forza necessaria per rialzarti e ti sembrerà che nessuno voglia veramente aiutarti a farlo.
Resterai lì, pregando di sparire, poi un giorno ti alzerai e scapperai.

Inizierai a correre allontanandoti da tutto e tutti.
Scapperai così lontano che ti dimenticherai da dove vieni e le persone che conosci ti sembreranno meno che ricordi, fantasmi.

Tutto questo è accaduto, accade e accadrà fino a che un giorno, mentre starai piangendo, ti verrà in mente qualcosa di buffo e, inspiegabilmente, ti metterai a ridere.

Ti verrà voglia di guardare vecchie foto e passerai ore a piangere, ridere, poi piangere ancora e ancora ridere.
Viaggerai con la mente e tornerai in posti dai quali ti tenevi a distanza perché erano troppo dolorosi, avrai fame di ricordi e li custodirai come tesori.
E ogni volta che piangerai, riderai un pochino, e ogni volta che riderai, piangerai un pochino.

Si, perché quel giorno capirai che il dolore, seppur vivo come quel maledetto mercoledì, non sarà mai più grande della vita e dell'ostinazione che dimostriamo restandoci attaccati tenacemente.

Fino a quel giorno, ogni volta che piangerai ti consolerò, ogni volta che cadrai ti aiuterò a rialzarti, ogni volta che scapperai ti verrò a cercare.

Te lo prometto.


 

12 aprile 2011

22:28

“Che ti succede?”
Voltai la testa, come ridestandomi, e guardai sopra la mia spalla sinistra.
Piotr stava lì, dritto e marziale come sempre, col volto illuminato dal fuoco e gli occhi da chissà quale pensiero, i piedi ben piantati a terra e il braccio destro teso verso di me.
Afferrai la birra che mi porgeva e lui si sedette sul suo giaciglio, a pochi passi dal mio.
“Che ti succede?” Disse ancora.
“Nulla, solo un po’ di malinconia…” Risposi tornando a guardare le fiamme.
Malinconia… Non conosco questa parola.” Piotr armeggiava attorno al collo della sua bottiglia col coltello multiuso, ad un tratto si bloccò e provò ad indovinare: “Sei triste?”.
“No” sorrisi, “Non sono triste”.
“E allora cosa è questa malinconia?”
“La malinconia è quando te ne stai seduto a duemila metri in una notte come questa, davanti ad un fuoco, con una birra in una mano ed un pensiero felice nell’altra. Quando sei in compagnia di un alpinista solitario, che viene da una nazione senza montagne e che gira il mondo scalando le cime più impegnative, solo per appendere in cima per pochi minuti la piccola bandiera che tiene sempre in tasca e, dopo averla guardata sventolare lassù, la stacca e la riporta a valle con sé, perché sua madre ragazzina fece quella bandiera clandestinamente, quando il suo Paese non esisteva ancora e lui non la regalerebbe neanche al monte Everest.”
Piotr sorrise sentendosi tirato in causa.
“La malinconia è quando la radio suona la tua canzone preferita, quando una bella ragazza ti sorride per strada, quando ritrovi quello che credevi di aver perso, quando va tutto bene, quando tutto è perfetto, ma tu… Beh tu…”
Bevvi un sorso di birra e mi girai verso di lui che mi stava fissando con la bottiglia stretta nelle due mani.
“Nonostante tutto questo, tu non riesci ad essere pienamente felice, capisci?”
Non rispose. Mi guardò intensamente, tanto che mi sentii in imbarazzo e mi voltai di nuovo verso il fuoco.
Con la coda dell’occhio lo vidi girarsi e così rimanemmo qualche minuto in silenzio, ognuno preso dai propri pensieri.
Piotr si allungò e raccolse due pezzi di legno dalla catasta, il più grande lo gettò nel fuoco mentre tenne per sé il più piccolo ed iniziò a giocherellarci.
Disse:
“Sai, scalare una montagna è molto difficile, serve tanto impegno, tanta preparazione, tanto sacrificio…”
Lo guardai e stava sventolando davanti a sé il legno che aveva in mano come se fosse un direttore d’orchestra.
“Arrivare in cima e vedere la bandiera di mia mamma sventolare è la mia perfezione, il mio tutto.” Disegnò un cerchio nell’aria, poi rimase in silenzio qualche istante mentre la mia impazienza cresceva.
“Quando inizio la discesa divento triste, come dici tu: malinconia. Sono sempre più triste e, quando arrivo al campo, inizio a preparare una nuova arrampicata perché non voglio essere triste, voglio trovare un'altra montagna, un’altra asta per la bandiera di mia mamma.
Allora parto e guadagno una nuova cima e tutto torna ad essere perfetto, anche se il ricordo di tutti gli altri momenti perfetti che non torneranno più è sempre lì, accanto a me.”
Mi guardò paternamente e poi aggiunse: “Ci ho messo tanti anni, ma poi ho capito che il ricordo di qualcosa di bello che ora non c’è più, non rende meno bello quello che c’è ora, ma rende te più grande, più completo.
Quando sarò su quella vetta dopodomani” disse indicando col bastone un punto imprecisato nel buio “sarò felice di aver portato le mie vecchie ossa lassù e sarò triste per tutte altre montagne sulle quali non salirò mai più.”
Mi raddrizzai, ero confuso. “Come puoi essere felice ma triste?” Dissi scuotendo la testa con supponenza “E’ un controsenso…”.
Piotr rise di gusto della mia ingenuità giovanile, poi si alzò, fece due dei suoi lunghi passi verso di me e mi mise una mano sulla testa.
“Non ho detto felice ma triste, io ho detto felice e triste”.

 

13 aprile 2010

00:23

Quando cadi, il mondo intorno a te si ferma per un istante.


La vista si oscura, alle orecchie non arrivano suoni, non provi nulla, neanche dolore.


Per qualche secondo resti a terra a crogiolarti in quel limbo, a godere della libertà, dell'assenza di peso di chi si è finalmente liberato di sé stesso.


Poi uno schiaffo, le prime voci si impossessano prepotentemente del vuoto, ne sradicano l'essenza, lo colorano, lo riempiono.


Ti metti a sedere e, con il cuore che riprende a pulsare, arriva il dolore.


Guardi le ferite per valutare i danni e vedi la pelle lacerata e la carne scoperta, ma niente sangue. No, niente sangue dapprima, perché lui è così: gli piace temporeggiare, farsi attendere, e solo quando è sicuro che tu stia trepidantemente guardando, allora esce a fiotti.


Insanguinato e dolorante ti ributti a terra, chiudi gli occhi e cerchi mentalmente la strada per qual posto favoloso in cui eri etereo ed invincibile e il tuo cervello ancora non capiva quel che era successo.


Sangue, lacrime, sudore.


Vorresti che tutto finisse, che il cielo si spaccasse in due, che dai calendari fossero cancellati tutti mercoledì, ma anche i giovedì e i venerdì che tanto a te non servono più. Ti rotoli per terra e fai i capricci perché il dolore è più grande della dignità.


Ma poi, senza che tu abbia dato ordini precisi al tuo corpo, tremore e singhiozzi si affievoliscono fino a scomparire, le lacrime si asciugano ed il sangue si secca attorno ai tagli ed ai graffi.


Perché succede?


Il dolore e la sofferenza sono identici all'istante in cui sono diventati concreti, ma qualcuno ti impone di ritrovare un contegno, un maledetto e insensato contegno.


Ma chi e con quale autorità ti priva del diritto d'esser miserabile?


Deluso e zoppicante riprendi la tua strada coperto di croste e lividi, le persone che incontri vedono te, ma guardano le tue ferite. Qualcuno storce il naso, infastidito dal fatto che le tue contusioni rovinino il paesaggio, qualcun altro si alza un po' i pantaloni, ti mostra una piccola sbucciatura sul ginocchio e dice che ti capisce perché anche lui ci è passato, qualcun altro ancora continua a fissarti e, spinto da una morbosa curiosità, non trattiene domande e allunga le mani per toccare le tue ferite.


Quanta pena e quanto disprezzo.


Un giorno ti accorgi che croste e lividi sono spariti lasciando cicatrici più o meno profonde. Le copri meglio che puoi per evitare sguardi e domande e riprendi a camminare chiedendoti perché il dolore non se ne sia andato, perché la sofferenza sia ancora profonda e tangibile come l'istante in cui il sangue ha iniziato a zampillare.


Ti avevano detto che sarebbe passato e tu pensavi al dolore, ma come può quando il ricordo del momento in cui hai toccato terra dopo un interminabile volo è così vivo e urlante?


Dicono che non ci sia niente di più vero e bello del momento in cui trovi la forza di alzarti scrollandoti la polvere di dosso.


Dicono un sacco di cose, ma la maggior parte sono cazzate.

 

13 aprile 2009

01:00

Sai, un giorno ero dall'altra parte del mondo e una signora mi ha chiesto se conoscevo Bibione. Io le ho risposto: "Si, un mio amico ci va tutti gli anni", poi mi è venuto da piangere, ma non l'ho fatto perchè se no la gente fa domande e vuole sapere, ma quando provi a spiegare non sa capire e, forse, ti compatisce un pochino. Invece sono io che provo pena per chi non comprende che un triangolo senza un vertice non funziona.

Mi hanno detto di lasciarti andare, mi hanno detto: "Ma tu non pensi che sia il caso di accettare che il Carlo è morto?", mi hanno detto che colmare un vuoto con un'illusione è peggio del vuoto stesso, mi hanno detto un sacco di cose e io ridevo, cazzo come ridevo!

Ridevo e rido di loro e della loro visione limitata, ridevo e rido di chi pensa di conoscere la verità e di potermi inquadrare, ridevo e rido di chi crede di sapere, ma invece non ha capito un cazzo.


Una volta un gigante mi ha detto che la vita è bella, ma io sono piccolino e, anche se mi fido, in fondo non ci credo.


Un pomeriggio passeggiavo solo, una signora che non ho mai visto si è avvicinata, mi ha preso per un braccio e, alzandosi sulle punte dei piedi, mi ha baciato, poi se ne è andata senza parlare.

Un altro giorno giocavo con la mia cuginetta e le ho fatto una scherzo. Lei si è spaventata, poi ha riso e mi ha abbracciato.
Quando sei andato via, mio padre ha piantato un albero che fa dei fiori bianchi e profumatissimi. Ogni tanto lo accarezzo e la corteccia non mi sembra fredda e ruvida.

Ci sono giorni in cui sento ancora il calore delle labbra della signora che non ho più rivisto.
Ci sono giorni in cui mi sento minuscolo tra la braccia di una bambina.
Ci sono giorni in cui gesti inutili fatti per amore mi sembrano più grandi dell'amore stesso.

Non ho riempito il vuoto che hai lasciato dentro di me con illusioni, non lo voglio fare e non lo farò.


Lo lascio così, apparentemente vuoto per chi guarda da fuori, ma traboccante per me.


E questo "vuoto" un giorno è una bambina da tenere per mano e guidare, anche se mi sento piccolo di fianco a lei; un altro giorno è il bacio di una mamma che ti avvolge e protegge; un altro giorno ancora è il gesto dell'uomo maturo che ti dà qualcosa da toccare quando le parole non servono più a niente.

Forse la vita è bella, o forse no, ma non importa fino a che non sarò solo.

Le barchette della foto sono tre: se una va a fondo ma la corda non si spezza, restano sempre tre, cazzo!
 

13 aprile 2008

13:54


Ho voglia di parlare del Lester Piggott

Ho voglia di parlare del Nautilus

Ho voglia di parlare del Road House

Ho voglia di parlare del parco giochi di Bodio

Ho voglia di parlare di quando si fumava nei locali

Ho voglia di parlare di quando si fumava

Ho voglia di parlare di quando bevevo

Ho voglia di parlare del Deconstruction

Ho voglia di parlare del Tunnel

Ho voglia di parlare delle ragazze del Decostruction che vivevano vicino al Tunnel

Ho voglia di parlare di niente

Ho voglia di parlare di tutto

Ho voglia di parlare di Bai, della Caminiti e della Ciotta

Ho voglia di parlare della maturità

Ho voglia di parlare di quando siamo diventati maturi

Ho voglia di parlare di NGI Lan

Ho voglia di parlare di SMAU

Ho voglia di parlare di uol

Ho voglia di parlare di una casa vicino a Lakeshire e di un gatto dentro il recinto

Ho voglia di parlare di gear

Ho voglia di parlare di GM

Ho voglia di parlare di CS

Ho voglia di parlare di “Headshot! Ma non è possibile!”

Ho voglia di parlare di cheats

Ho voglia di parlare di rosik

Ho voglia di parlare di lavoro, di pendolarismo e di colleghi stupidi

Ho voglia di parlare della palestra della Robour

Ho voglia di parlare di svenimenti nella palestra della Robour

Ho voglia di parlare della telefonata di Mino

Ho voglia di parlare della mia telefonata

Ho voglia di parlare della tangenziale est

Ho voglia di parlare del Niguarda e degli elicotteri che volano sopra Milano

Ho voglia di parlare delle porte scorrevoli del Pronto Soccorso

Ho voglia di parlare di persone che non conoscevo e che per un pochino mi sono sembrate amiche

Ho voglia di parlare della mia mamma

Ho voglia di parlare del mio potere

Ho voglia di parlare dei poliziotti che stavano lì vicino in borghese e con il distintivo appeso al collo, come nei film

Ho voglia di parlare di un posto che mi dicevano essere Milano, ma in realtà è una specie di campagna dove hanno costruito delle fabbriche e dato alle vie nomi di inventori e scienziati

Ho voglia di parlare di quanto solenne me lo immaginassi e di quanto squallido fosse in realtà

Ho voglia di parlare di una telefonata che ho ricevuto sul telefono di Franz

Ho voglia di parlare del motivo per cui una persona viva debba donare gli organi e degli altri misteri dell’universo

Ho voglia di parlare di “Sta morendo, prega”

Ho voglia di parlare dell’Albi e di quanto non abbia neanche finito di ascoltare la sua frase

Ho voglia di parlare delle porte scorrevoli del Pronto Soccorso

Ho voglia di parlare di una fuga

Ho voglia di parlare di un muretto e di un parco, da qualche parte a Milano

Ho voglia di parlare di codardia

Ho voglia di parlare di piccole mosche sui mie jeans Volcom

Ho voglia di parlare di Blue in the Face

Ho voglia di parlare dei guardiani dell’obitorio che mi sono sembrate le persone più buone e umane del mondo

Ho voglia di parlare del tram che passa davanti al Niguarda e delle persone che vi 
salgono

Ho voglia di parlare di un cespuglio dentro cui una zingara nasconde una scatola quando ha finito il suo turno

Ho voglia di parlare di piazza Montegrappa al giovedì sera all’ora di cena

Ho voglia di parlare di chi piange in bicicletta

Ho voglia di parlare di gente seduta per terra che piange abbracciando una borsa

Ho voglia di parlare di pulire delle macchie rosso scuro da un paio di scarpe Nike

Ho voglia di parlare di una borsa portata come fosse un bambino

Ho voglia di parlare di “Salta Bacco”

Ho voglia di parlare di casse da morto chiuse e sigillate con la cera

Ho voglia di parlare delle scarpe delle persone

Ho voglia di parlare di quella piccola ruspa che usano nei cimiteri e di quanto onnipotente si debba sentire chi la usa per scavare buchi

Ho voglia di parlare di lapidi standard e riciclabili

Ho voglia di parlare di quanto sono comodi i gradini di un cimitero quando sei coi tuoi amici

Ho voglia di parlare di budda sudato

Ho voglia di parlare della prima sera da solo

Ho voglia di parlare di quando ricominci e non sai bene perché

Ho voglia di parlare di gente che dimentica e che va avanti perché è più importante… Più importante di che?

Ho voglia di parlare di ieri

Ho voglia di parlare di oggi

Ho voglia di parlare di te

Buco
 

13 aprile 2007

19:21

Due righe, o forse tre, giusto per aggiungere qualcosa a quello che ho sentito ieri in chiesa e per tutte quelle persone che, come me, non riescono a trovare troppa consolazione nel disegno divino che ci viene presentato.

Si perché è facile dire che sei sempre e comunque in mezzo a noi, che non ti abbiamo perso, che non dobbiamo essere tristi perché tu ora stai meglio di un anno e un giorno fa, è facile metterti in bocca le ultime parole di papa Giovanni Paolo II, è troppo facile, ed a me le cose facili stanno un po’ sul cazzo…

Io so che un giorno ti rivedrò così come ti ho lasciato (cioè, a voler esser pignoli sei tu che mi hai lasciato…), so che sei sempre con me perché ti sento sempre con me, so che sto facendo la cosa giusta anche se mi costa molto di più di quel che do a vedere, ma non mi basta.
Sarò un bambino capriccioso, ma non mi basta…

Sai, il momento più brutto dell’ultimo anno non è stato il giorno dell’incidente, né il mio primo compleanno senza il tuo “Auguri Testa di Cazzo”,ma è stato il momento in cui ho iniziato a sentire la tua mancanza, quella delle idiozie giornaliere, degli scleri su msn quando al lavoro non se ne può più, delle ore davanti al pc a “buttare il tempo dietro a quei giochini”, la mancanza dell’aperitivo del sabato sera all’Orchidea, delle serate inutili e insipide, del “Dimmi” con cui rispondevi al telefono, della tua camminata da perfetto idiota, la mancanza del tuo pessimo senso estetico, di quando litigavamo, dello stare ore a parlare senza dire niente ma risolvendo tutti i problemi del mondo, la mancanza del “noi 3”…

E non c’è nulla da fare, non c’è consolazione per questa crisi d’astinenza.
Posso uscire con gli amici, ridere e scherzare, ma quando sono in macchina, tornando a casa da solo, mi giro verso il sedile del passeggero e mi sembra di vederti lì, un po’ gobbo, che fai facce da pirla perché ti sei accorto che ti sto guardando.

Mi manchi, cazzo, mi manchi davvero.
 

13 aprile 2006

12:38





Non sono Bacco.
Dio solo sa quanto vorrei essere lui, Dio solo sa quanto vorrei che questo fosse uns delle sue fottutissime bloggate in cui si lamenta di tutto e di tutti.
Invece no.
Sono Luca.
Siamo Davide e Luca.
Siamo un inutile triangolo senza un vertice.
E stiamo in lacrime davanti ad un pc con il doveroso obbligo di render noto a tutti quello che è successo.
L'unico modo che abbiamo di contattare alcune persone è attraverso la sua valvola di sfogo verso il mondo, ovvero queste pagine.
Carlo è morto, cristo, è morto davvero.
E non c'è un cazzo da fare, niente che ce lo possa ridare, niente.

Abbiamo postato 3 immagini che vorremmo rimanessero nel ricordo di tutti voi, sono della nostra ultima vacanza insieme, sono del Bacco, quello vero.

Per chiunque avesse bisogno di chiarimenti o informazioni lascio i nostri indirizzi mail, non esitate a contattarci ma non pretendete una risposta immediata.

Con affetto.

White Trash e Evil Bart
luca@dlbsux.com
dade@dlbsux.com
 

11 aprile 2006

13:59
A saperlo prima avrei preso una motosega o un cazzo di lanciafiamme e avrei bruciato qualsiasi cosa inerente alla vegetazione intorno a me.

Ci deve essere il trucco, per forza di cose, non è possibile... insomma tutto questo predicare, bla bla bla, cicici, cococò spazzato via così? Come se nulla fosse? Sì beh una parte di me è li sperduta e sofferente ma è sperduta, lo è sempre stata e quindi mai considerata in tutti sti anni, ma il resto?

Oggi ho pure fame. No dai, c'è il trucco.

O forse no, nessun trucco, è normale... nella sua piccola grandezza è tutto giusto, tutto in proporzione. Allora perché ci sto a pensare? Forse perché sta tutto nelle dovute proporzioni e quindi ha il suo perché.
 

01:45
Non più verde.
Non più bianco.
Non più 9.
Non più x.
Non più rosso.
Non più giallo.
Non più sbiadito...

... o almeno per un po', buonanotte.